Deceduto il legittimo assegnatario che l’aveva fatta vivere nella casa popolare: condannata per occupazione abusiva

Irrilevante, chiariscono i giudici, il consenso prestato in origine dal legittimo assegnatario dell’immobile

Deceduto il legittimo assegnatario che l’aveva fatta vivere nella casa popolare: condannata per occupazione abusiva

Vive in una casa popolare su autorizzazione del legittimo assegnatario poi deceduto: sacrosanta la condanna per occupazione abusiva. Questa la decisione dei giudici (sentenza numero 20675 del 4 giugno 2025 della Cassazione), i quali hanno condannato una donna, beccata ad abitare con la propria famiglia in una casa popolare pur non avendo diritto all’assegnazione, e hanno definito irrilevante il consenso prestato dal legittimo assegnatario dell’immobile.
Scenario della vicenda è la provincia trapanese. A finire nei guai è una donna, beccata a vivere illegittimamente in una casa nella disponibilità dell’’Istituto autonomo case popolari’. Inevitabile lo strascico giudiziario, che vede la donna condannata, sia in primo che in secondo grado, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di invasione di edificio pubblico.
In Cassazione la difesa prova a ridimensionare i fatti, ricordando che, Codice Penale alla mano, l’elemento oggettivo del reato consiste nell’invasione di un terreno o di un edificio e la condotta si sostanzia nell’introduzione arbitraria in un immobile posto da un soggetto privo di legittimazione e quindi l’elemento soggettivo è costituito dal dolo specifico di occupare l’immobile traendone una qualsiasi utilità. Invece, nella vicenda trapanese non si è verificata, secondo la difesa, nessuna invasione poiché la donna sotto processo ha continuato ad abitare, unitamente ai propri figli, all’interno dell’immobile che era stato assegnato ad un uomo che aveva consentito a lei e alla sua famiglia di vivervi. E la donna è subentrata nel possesso dell’immobile dopo la morte del legittimo assegnatario, previo consenso della figlia dell’uomo, aggiunge, in chiusura, la difesa.
A fronte di tale versione, però, i magistrati di Cassazione ritengono impossibile mettere in dubbio la condanna della donna, palesemente colpevole del reato di invasione di immobile pubblico. Ciò innanzitutto alla luce del principio secondo cui è catalogabile come occupazione abusiva la condotta di chi, ospitato in un immobile di edilizia residenziale pubblica in virtù del rapporto di parentela con il legittimo assegnatario, vi permanga anche dopo il decesso di quest’ultimo, comportandosi come dominus o possessore.
Ampliando l’orizzonte, poi, i magistrati sottolineano che, qualora un soggetto subentri nell’immobile di proprietà di un ente pubblico, previa autorizzazione del legittimo detentore, la nozione di invasione non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce arbitrariamente, ossia contra ius in quanto privo del diritto d’accesso, per cui la conseguente occupazione costituisce l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione. Perciò, i mezzi e il modo con cui avviene l’invasione sono indifferenti, né è necessario che ricorra il requisito della clandestinità, che costituisce uno degli elementi dello spoglio civile, di talché l’invasione può commettersi anche palesemente e senza violenza neppure sulle cose o senza inganno. Seguendo tale impostazione, quindi, integra il reato di invasione di immobile pubblico la condotta di chi, inizialmente ospitato a titolo di cortesia dall’assegnatario di un immobile di edilizia residenziale pubblica, vi permanga anche dopo l’allontanamento dell’assegnatario, comportandosi come dominus o possessore, atteso che la mera ospitalità non costituisce un legittimo titolo per l’occupazione dell’immobile e che il versamento all’ente pubblico, proprietario dell’immobile, dell’indennità di occupazione ovvero il rilascio di un certificato di residenza indicante quale luogo d’abitazione l’immobile occupato e l’allaccio delle utenze domestiche non escludono la sussistenza del reato, già perfezionato con l’abusiva introduzione nell’immobile e la sua destinazione a propria stabile dimora.
Tale visione è corretta, secondo i magistrati, sia perché oggetto specifica della tutela penale è l’interesse pubblico alla inviolabilità del patrimonio immobiliare, in relazione alla protezione del diritto – spettante ai privati, allo Stato o ad altri enti pubblici – di conservare i terreni o gli edifici legittimamente posseduti liberi da invasioni di persone non autorizzate. Ciò che rileva, poi, è il mancato rispetto delle regole nell’individuazione del soggetto assegnatario che deve avvenire secondo forme non arbitrarie e soggettive ma pubbliche e regolate, tanto che nemmeno l’acquiescenza dell’ente proprietario elide la situazione di arbitrarietà, non potendo gli organi dell’ente sottrarsi al dovere di assegnazione dell’immobile sulla base dei criteri legali.
Tirando le somme, il reato di invasione deve ritenersi configurabile ogniqualvolta si occupa un immobile sine titulo e tale deve considerarsi la condotta di chi subentra nell’appartamento di proprietà di un ente pubblico, previa autorizzazione del precedente legittimo detentore, come nella vicenda trapanese, ovvero di chi occupa l’immobile a titolo di mera cortesia o in virtù di un rapporto di parentela con l’originario e legittimo assegnatario. La conseguente occupazione deve ritenersi, pertanto, l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione. Difatti, l’autorizzazione del precedente legittimo detentore o la mera ospitalità ovvero il rapporto di parentela con il legittimo assegnatario non determina l’instaurazione di una relazione giuridica di detenzione qualificata ovvero di possesso con l’immobile e, pertanto, la permanenza dell’ospite o del congiunto, nonostante l’allontanamento o, come nella vicenda trapanese, il decesso dell’occupante legittimo, non può saldarsi con la precedente relazione del soggetto avente diritto all’immobile. Altrimenti, anche un rapporto di amicizia potrebbe legittimare il passaggio della detenzione dell’immobile dal legittimo assegnatario a chi invece non ha i requisiti per l’assegnazione dell’alloggio, precisano i giudici.
Sacrosanto, quindi, parlare di occupazione dell’immobile senza un titolo legittimo, poiché l’assegnatario non è legittimato a trasferire la detenzione od il possesso dell’immobile, in quanto l’assegnazione avviene secondo procedure ed in presenza dei presupposti soggettivi stabiliti dalla legge, ragion per cui chi subentra con l’autorizzazione dell’originario assegnatario deve essere considerato occupante arbitrario dell’immobile, perché lo occupa contra ius.
Confermata in via definitiva, quindi, la condanna della donna sotto processo. Impossibile, chiosano i magistrati, parlare di episodio non grave e quindi non punibile, soprattutto valorizzando le modalità della condotta e il grado di colpevolezza e di intensità del dolo, nonché la prolungata occupazione arbitraria e la conseguente entità del danno cagionato, e, inoltre, la mancata allegazione della cessazione della condotta criminosa tramite rilascio dell’immobile, che risulta presupposto indefettibile di un eventuale proscioglimento.

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